Un giorno ci perderemo

Ad una fermata del bus uguale a tante
cadrà sul fianco, vuota, la mano,
rotolando come le cose vecchie
in fondo allo scaffale
fino a riempire di polvere le orecchie
un giorno ci perderemo.
Immagineremo allora assai banale
l’esserci trovati
e assai inespresso il resto.

Vorrei per quel giorno
poter scegliere un cielo
e riconoscerlo.

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La stagione dell’amore

Ti ricorderai del cespuglio di baci
all’ombra del giardino?
Il platano parlava per ore
alla cornacchia:
come quello t’accoglievo tra le braccia.

Tu del giardino
sei l’esistere più fragile ed incerto,
non la fontana dipinta di gocce,
non le serpi nelle rocce,
il cespuglio di more,
l’effimera che gode delle ore.
Posi un nido di paure sui miei rami.

Ricorderai il tuo canto
che si invera sul mio petto?
La brina il verde trascinava
sulle piume
e il tempo più non s’annodava stretto
a disegnar del legno i cerchi scuri.

Seguirò un giorno
nella leggerezza del tronco
il tuo sbatter d’ali migliore,
il tepore del vento del sud
quando ti innalza
all’ultima stagione,
al sole su cui muore la tua ombra.

Piango nel rosa della nuvola
che ha dipinto distante la tua ala
e il cielo lì dove tu sei
non lo racconta.

 

 

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D’acqua e di chiese

I fianchi desolati
della riva novembrina
dove la treccia tamerice si scompiglia,
accumulati i legni chiari alla battigia
fa trottola di attese.

Colata nell’umido la gola
s’addomestica al silenzio il marinaio
e dove il fondo è meno buio
il calamaio svuota del suo inchiostro
ad annegare.

Nuove chiese in nuovi porti,
croci d’acque rigonfie,
marinaio a pregar l’onde
dai tocchi gentili
e pur dal pallore tormentoso
del rivolo esploso sulle gote di Maria
ti lasceresti sfiancato
giudicare.

 

Carezza

La mia casa non ha che finestre,
ma ringrazio il vento
per le foglie arrossite al davanzale,
per l’aria nuova spaziosa, i pensieri spazzati,

e nel buio delle ore nascoste
ringrazio le bianche funambole,
occhi a colmarle, e la solitudine meravigliosa
come le figlie tutte del silenzio.

Quando volano insieme la foglia
e la stella, benedico la scia
dei miei passi che non hanno un sentiero,
e il sentiero che invece ha miei passi,

perché in ogni carezza di Notte
la lampadina è soltanto un’idea,
l’astro è  poesia. E’ una dolcezza
se le cicale già cantano meglio di me.

 

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Tra le mani

Il vento fa onde di pioggia,
sotto il mare l’asfalto spaura
e l’inchiostro, pavido anch’esso,
si rifugia nel palmo.
Tra le mani ho le lettere che non scrissi,
gli appunti -non tutti miei-, le fantasie:
la linea curva sotto l’indice è il frutto pigro
di una poesia d’amore che matura,
poi, sopra il polso,
le piccole piaghe -una culla di lacrime- conservano tutti i lamenti
e un vortice sfrontato dalla cima delle dita li disperde.

Sarebbe felice raccontarti, amore,
adesso della meraviglia di stringerti la mano
e di come, abbracciandoci le dita,
ancora ci accogliamo.

 

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Il punto G del male

Ci urlano dietro,
vedove, i giorni lasciati.
Abusati -mai più sogneranno-
i mariti, o almeno
così ci hanno detto.

Vorrei mi trattenessi in grembo

Sapresti, tu, trovare il punto
che colpisco quando scalcio?
Correggimi se m’ami,
accoglimi sempre,
seguimi al corteo
del manichino nella scatola di scarpe.

E scuotiti,
offri al dolore le dita segnate,
le unghie spezzate,
scava il punto esatto in cui,
ancora, io ti sono dentro.

lì ho bisogno che piangiamo.

 

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Il mare in città

Il mare in città
è la coda di serpente alla cassa,
il dosso impertinente,
il surfista che cavalca l’onda verde,
e un tappo di bottiglia arrotolato
è la conchiglia.
La parabola dei pensieri interferisce
col segnale digitale
e l’ascensore c’ha lo specchio che ti punta
come l’impeto salato
nella secca: evaporato.

Il tempo -e che tempo in città-
sono i 50 rotoli ad un euro
vegliardi allo scaffale,
-ma che affare!-
anch’essi ad uno,
ad uno
moriranno.

 

E una corrente polverosa
già si posa sui granelli d’ombra,
e una notte di stelle di tungsteno
ancora li consola.

 

 

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Paula Bonet